Queste operazioni si facevano con tali cautele che le persone offese a tutti avrebbero data la colpa fuorchè a Martino, che era soltanto riputato il primo bevitore del paese.
In mano di costui era incappato D. Michele, il quale aveva passata la notte fantasticando senza mai poter indovinare ove fosse. Alla prim'alba sentì tre colpi di artiglieria, quali si usavano sparare ogni mattina dalla rôcca di Barletta; s'ajutò alla meglio, e giunse ad arrampicarsi alla feritoja dalla quale entrava il lume, ma lo spiraglio era coperto in modo dall'edera che non si vedeva per quello altro che un picciol tratto di mare. Soprastato così un poco, venne a passare un battello pieno d'ortaglie, e conobbe quello che lo conduceva per l'ortolano di S. Orsola: allora fu quasi certo di trovarsi nel fondo della torre che ne difendeva l'entrata. Appena sceso dal luogo della sua scoperta, s'aprì la prigione e ne fu tratto da due robusti mascalzoni che lo fecero salire nella camera del capitano.
S'era questi alzato di poco, e stava di tutto scinto a sedere sulla sponda del suo tettuccio avanti ad una tavola coperta ancora in disordine degli avanzi d'una gozzoviglia. Un rastrello che girava tutt'intorno al muro era guarnito di picche, d'archibugi a forcina, di petti di ferro e d'altre armature. Guardò D. Michele, che entrava, con un occhio che pareva stentasse a sollevare la palpebra rugosa e cadente che lo copriva, e facendo col tacco d'uno degli stivaletti la battuta sul pavimento, gli disse:
- Devi sapere, Messer tu, che non so come ti chiami, che chi passa la notte alla mia osteria paga cento fiorini d'oro da dieci lire della zecca di Firenze, o se gli par meglio, di quella di San Marco.
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