Eri tanto debolina, che non potevi inghiottir nulla e noi temevamo sempre di vederti morire da un momento all'altro. La tua mamma diceva: Oh se la mia povera bambina dovesse patire! E s'ingegnava di farti ingoiare qualche gocciola di latte. Spesso, quando dopo una lunga giornata di strapazzi, si addormentava, tu la svegliavi coi tuoi strilli: e lei, sempre paziente e amorosa, correva alla tua culla per racchetarti.
- Anch'io, da piccina, avrò adunque avuto la testa debole e molliccia come quella del mio fratellino?
- Come quella, figliuola mia.
- E com'è dura, ora! Chi sa quante volte avrò corso il pericolo di farmela in pezzi!
- Eppure non ti è mai avvenuta una disgrazia! Noi non ti lasciavamo un momento. La mamma rinunziò per te a ogni divertimento, a ogni spasso: trascurò tutte le sue conoscenze e si dette esclusivamente a te: quando, a volte, era costretta a uscir di casa per far delle compre, stava sempre in pensiero e non vedeva l'ora d'esser tornata. "Gigia, diceva alla donna di servizio, ti raccomando l'Enrichettina, fa' conto che sia tua," e le faceva sempre delle attenzioni e dei regali, perchè ti tenesse bene.
- Povera mamma! Ma dimmi un po': c'è stato proprio un tempo durante il quale non sapevo correre? E ora corro, tanto! In tre volte ho fatto il giro della camera. Chi m'ha insegnato?
- La mamma e io, rispose il babbo. Ti avevamo messo intorno al capino un cercine di velluto ben imbottito, affinchè, se cadevi, tu non ti fossi fatta male: poi ti tenevamo nel cestino o ti sorreggevamo sotto le ascelle, per guidare i tuoi primi passi: ti portavamo tutti i giorni nel giardino, sul praticello dirimpetto alla casa, e là ci mettevamo di faccia l'uno all'altro e stendevamo le braccia a te, che lasciavamo sola, nel mezzo: se facevi tanto d'inciampare in un sasso, ci sentivamo rimescolare il sangue: quando poi giungevi sana e salva nelle nostre braccia, allora erano risate, battimani, tripudi.
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Enrichettina
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