Compiuta la separazione, i cenci son fatti bollire in un bucato di soda, che fa scomparire certi colori, scioglie le sostanze grasse appiccicate ai cenci e li purga: dopo si risciacquano nell'acqua pura.
Purificati in tal modo i cenci, bisogna disfarne i tessuti, disunire le fibre vegetali e mescolarle in modo da ricavarne una specie di pasta. A tal fine si ammontano i cenci in una gran vasca detta marcitoio, nella quale sono mantenuti sempre fradici, affinchè si decompongano.
Questa decomposizione si compie in un intervallo dai dieci ai venti giorni, secondo la temperatura del luogo, lo stato degli stracci ed il genere di carta più o meno bella che si vuole ottenere: in quel tempo il mucchio di cenci si è trasformato in poltiglia fetida: ora bisogna ridurla in una pasta atta a fornire la carta. A tal uopo, si tolgono i cenci dal marcitoio e si collocano in pile di pietra piene d'acqua, che si dicono pile a cenci. Ciascuna di queste pile è guarnita di tre, o più mazze ferrate poste di fronte e messe in moto da un cilindro orizzontale, munito di altrettante sporgenze, che, girando continuamente, solleva e lascia poi ricadere alternativamente quelle mazze ferrate. Questa successione di cadute squassa fortemente i cenci, li riduce in pasta vie più assottigliata e li imbianca.
Abbiamo trasformato i cenci in pasta, ci resta da fare il meglio: trasformare la pasta in carta(2). Questa meravigliosa trasformazione fu narrata egregiamente da un nostro grande poeta, Giuseppe Giusti, quando andò a vedere le cartiere del Cini a San Marcello, nella montagna pistoiese.
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Giuseppe Giusti Cini San Marcello
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