Ma (anche in ciò non insueto) l'ammonito continuò. Tuttociò finí per una di quelle scelleratezze miste di barbarie e letteratura, che eran del tempo. Compagno, anzi mezzano del tiranno a sue sfrenatezze, era un cugino di lui, discendente da Lorenzo fratello di Cosimo padre della patria, detto pur Lorenzo o Lorenzino o Lorenzaccio, ed anche il "filosofo", perché pizzicava del letterato e del miscredente. Costui trasse il duca in sua casa, in sua camera, dove promise condurgli una bella e virtuosa gentildonna; ed assistito da Scoronconcolo, un bravo, ivi lo pugnalò e scannò [6 gennaio 1537]. Poi lasciando il cadavere nel letto con una polizza d'una citazione latina sul capo ("Vincit amor patriae laudumque immensa cupido"), fuggí spaventato, come giá l'uccisor di Giuliano, a Bologna e Venezia. Questo pretendere alti fini a bassissimi misfatti è cosa volgare. Piú rara (ma pur veduta in novembre 1848) ottenerne le lodi pretese; e toccò tal sorte a Lorenzino. Fu lodato in versi e in prosa, paragonato a Bruto; non mai furono sconvolte tutte le idee morali e politiche come in quel secolo. Quanto poi a restaurar la repubblica, quasi non se ne parlò; e tre dí appresso fu fatto capo e principe Cosimo de' Medici, un altro discendente di quel medesimo fratello di Cosimo, un figlio di Giovanni dalle bande nere, un giovane di diciannove anni, quasi un Cesare Augusto in piccolo; il quale fatto duca dall'imperatore, e piú tardi granduca dal papa [1569], fu stipite di que' secondi e minori Medici, che signoreggiaron Toscana due secoli giusti or con mediocritá ed or peggio.
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