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      Ma non fu tal risoluzione; furono trenta irresoluzioni di giorno in giorno; non si mosse una zolla di terra sui colli difensivi, poche s'alzarono sulla strada da Verona a Peschiera; non si pensò ad assalir Verona con buona artiglieria, e buona pazienza, in regola, in faccia a sé, dove s'era mal tentata due volte; si pensò assalirla per la manca d'Adige, ficcando l'esercito tra esso e l'Alpi, che era una stoltezza, e non si tentò nemmeno; si pensò, forse piú strano, ad assalir Legnago, forticello piccolo, fiancheggiato dalle due fortezze grosse, e non si tentò; e si pensò finalmente, e pur troppo si tentò e incominciò, l'assedio di Mantova. In quella stagione, non v'era aria cattiva, ond'è probabile che se fosse durato quell'assedio sarebbe finito colla perdizione dell'esercito intiero.
      Ma se fosse finito colla presa di Mantova, non era fatto nulla, o poco; rimanendo intiera agli austriaci la linea dell'Adige, Legnago, e massime la gran Verona, quella Verona che è la vera ròcca d'Austria, il vero freno d'Italia. Ad ogni modo, addí 13 s'investí la piazza; due divisioni (si noti bene), un ventimila uomini, a destra di Mincio; il resto dell'esercito, un sessantamila uomini, a scaglioni tra Sacca e Marmirolo fino a Rivoli e la Corona; cioè in somma una linea sproporzionatamente lunga, una grossa testa intorno a Mantova, una lunga coda fino all'Alpi. Sorrideva finalmente la fortuna saputa aspettare dal vecchio maresciallo austriaco; colsela, accarezzò, aggravò l'errore nostro, e piombò ardito poi a punirlo.


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Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni: sommario
di Cesare Balbo
pagine 750

   





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