Nel quale, con istrana mescolanza di severità od anzi satira, e d'amorevolezza, ei mette il maestro tra i dannati del più brutto fra' peccati,* e gli dice poi teneramente:
Chè in la mente m'è fitta, e ancor m'accuoraLa cara e buona immagine paterna
Di voi nel mondo, quando ad ora ad oraM'insegnavate come l'uom s'eterna
E quant'io l'abbo in grado, mentre io vivo,
Convien che nella lingua mia si scerna.
Inf. XV. 82-87.
Non fermiamoci con tanti altri a spiegare, giustificare, o peggio lodar Dante di tale contraddizione e sconcezza, che ancor sa di quella barbarie onde egli primo usciva, e non è meraviglia uscisse talora imbrattato. Veniamo anzi a Brunetto. Il quale nato, non si sa in qual anno,* di nobil famiglia fiorentina, e Guelfo costante, trovavasi ambasciadore del Comune ad Alfonso di Castiglia l'anno 1260, mentre la parte sua era cacciata dalla città dopo la rotta di Monteaperti; e rimase esule così più anni in Francia, e probabilmente in Parigi. Fece ivi in lingua volgare nostra parecchie traduzioni da Cicerone; e in lingua d'oil il suo poema intitolato il Tesoro, zibaldone o enciclopedia delle cognizioni di quei tempi. Tornato a Firenze colla famiglia di Dante e con gli altri Guelfi nel 1266, fecevi in versi e in nostro volgare il Tesoretto, che è una raccolta di sentenze morali; e poi il Pataffio,* che è una raccolta di riboboli fiorentini. Ebbe quindi l'uffizio, detto già di Notario, allora Dittatore, e più tardi, ai tempi di Machiavello che pur l'ebbe, Segretario della Repubblica Fiorentina; e quello di Sindaco per essa nell'anno 1284, che allora voleva dir deputato a qualche commissione particolare.
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