Chè se l'antiveder qui non m'inganna,
Prima fien triste che le guance impetiColui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or fa che più non mi ti celi;
Vedi che non pur io, ma questa genteTutta rimira là dove 'l Sol veli.
Per ch'io a lui: se ti riduci a menteQual fosti meco, e quale io teco fui,
Ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi volse costui, ecc.
Purg. XXIII. 76-118.
Nei quali ultimi versi veggono gli espositori un cenno della vita allegra e viziosa anzi che no, condotta in quegli anni insieme dai due giovani Dante e Forese. Nè par dubbio; e tanto meno se vi si aggiunga e l'impenitenza di Forese nel peccato della gola, e ciò che di Dante vedremo poi anche più chiaro. Ma osservisi ne' versi precedenti la virtuosa indegnazione di lui contro ogni vizio sfacciato e scandaloso: ei non fu almeno di quelli che aggiungono al vizio la colpa peggiore di scusarlo, o la pessima di trarne vanto.
Accompagnandosi quindi i due amici su per il monte, Dante domanda a Forese di Piccarda; e questi:
La mia sorella, che tra bella e buonaNon so qual fosse più, trionfa lieta
Nell'alto Olimpo già di sua corona.
Purg. XXIV. 13-15.
Salito poscia in Paradiso, vi ritrova la gentile Piccarda, ma nel cerchio più basso di quello dove sono le anime state in terra sforzate a rompere qualche voto. La storia di Piccarda è delle più patetiche fra le rammentate da Dante; ed è meraviglia che fra le parecchie a lui tolte dai poeti moderni, non sia stata pur questa. Piccarda, o forse Riccarda, prese il velo nel monistero di Santa Chiara di Firenze, un Ordine fondato al principio di quel secolo da quella concittadina e contemporanea di San Francesco d'Assisi.
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