Fuor della quale, poi, meno che mai s'intenderebbe quanto segue di lui. È narrato, che di ritorno da Verona, ei «ridussesi tutto a umiltà, cercando con buone opere e buoni portamenti riacquistare la grazia di poter tornare in Firenze per ispontanea rivocazione di chi reggeva la terra. E sopra questa parte s'affaticò assai, e scrisse più volte non solamente a' particolari cittadini del reggimento, ma ancora al popolo; e intra l'altre, un'epistola assai lunga che incomincia: Popule mi, quid feci tibi?»436* Chiaro è quindi, che queste speranze di ripatriare, queste lettere conciliatorie furono di questi anni, tra il 1304 e il 1306, contemporanee del ritorno alla vita studiosa, e delle due dimore agli Studj di Bologna e di Padova. Ed altri cenni, poi, di questo nuovo ma non durevole animo, trovansi e in alcune delle poesie di lui d'incerta data, e nelle opere da lui intraprese o riprese a quel tempo.
Delle quali, che la prima fosse il Convito, non ne dubiteranno tutti coloro che si risolvano a leggerlo attentamente; tenendo conto e delle date indi risultanti, e poi della natura stessa dell'opera, che è quasi continuazione della Vita Nova. Quindi, anzi, alcuni fanno una parte di esso scritta fin da Firenze; ma parmi congettura fondata su interpretazioni dubbiose, non necessaria a spiegar nulla, e rigettabile per la ragione intrinseca, che tutte le parti del libro sono scritte con animo ghibellino, e così di Dante esule. Del resto, importa poco; posciachè, insomma, l'opera qual è, non potè certo essere scritta se non nell'esilio ivi rammentato.
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