Ma diventato ora ghibellino, ed incamminato qui in cavillazioni e distinzioni e scuse, gli sorge uno scrupolo, ed intraprende di provare che non peccò d'irriverenza contraddicendo a uno imperadore. E forse egli entra in tale scusa principalmente per aver occasione di magnificare la dignità imperiale, l'imperio di Roma e la Monarchia; cioè, come egli intende sempre, la supremazia d'un solo imperadore nel mondo, la monarchia universale. Ma, ed ogni modo, ei v'ha qui gran mutazione, e non felice, dello infelice ed irato scrittore. Del resto, come vedemmo poc'anzi il seme del Volgare Eloquio, qui è, quello della Monarchia; dove poi l'argomento è svolto in modo più opportuno, più chiaro, ed anche più moderato per l'opposizione che vi si fa dell'autorità spirituale del Papa a quella autorità universale temporale. Ma di ciò a suo tempo.
In tutto, il Convito è certo l'infima fra le opere di Dante; non di gioventù vera, come la Vita Nova e quasi tutte le poesie sciolte; non tendente a due fini importantissimi in quell'età, come l'Eloquio Volgare e la Monarchia; nè comparabile, poi, di niuna maniera col Poema. Fu opera d'un infelice, sbalzato dalla tranquillità sua d'animo e di vita nelle vicende, nelle miserie, nei dubbi, nell'ire dell'esilio; che voleva ricorrere allo studio, che ne cercava le vie, che ancor non si sentiva di riprendere l'opera grande ideata in tempi migliori; che riprendeva i pensieri, le opere di gioventù, a commentarle e spiegarle e giustificarle, e ad aggiungervi poi i nuovi pensieri accumulati ma informi ancora nella feconda mente; e che ne rimase oppresso fino a che egli non se ne sfogò in miglior modo.
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