464 Alla quale conseguenza attendendo unicamente tutti coloro che finora seguirono e commentarono Dante, e disputandone variamente, e forse interminabilmente, trascurarono di lodarlo e d'imitarlo in quanto egli dice sui dialetti d'Italia, che è forse la parte più osservabile di tutto il Trattato. Disprezzan gli uni e temono gli altri questo argomento. Ma non giovano i disprezzi contra a un fatto. Ed è fatto innegabile, che esistettero ed esistono da Dante in poi questi dialetti, e che furono non solo parlati, ma pure scritti in tutti i secoli nostri: come si vede da parecchie cronache romanesche, pugliesi, veneziane e piemontesi; nelle traduzioni del Tasso, in molte canzoni popolari; ed ultimamente nelle Commedie del Goldoni, e nelle Poesie liriche e satiriche del Meli, del Calvi, del Porta, del Grossi e di altri ancora, che posson talora fare invidia in queste parti alla stessa letteratura italiana, e mostrare sempre vivo l'amore ai dialetti d'ogni provincia d'Italia.* E quanto al timore che siffatta coltura dei dialetti, o il trattarne solamente, possa nuocere a quella lingua ch'è sola comunanza tra noi Italiani; certo, se fosse ragionevole dal timore, noi ci dovremmo religiosamente astenere da tali studii. Ma ridotto com'è l'uso dei dialetti alle cose più popolaresche, le quali ad ogni modo non si scriverebbero in lingua studiata, non può nuocere a questa; e l'aggiungere agli onesti piaceri intellettuali e così alla coltura d'una popolazione italiana qualunque, non può nuocere mai all'Italia.
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