All'incontro, nelle nazioni senza centro, diventa bensì principale nella lingua un dialetto (imperciocchè è impossibile che tutti vi contribuiscano per parti uguali); ma il principato di esso, non ajutato dalla centralità delle istituzioni civili, rimane di necessità meno certo fin da principio, e disputato poi continuamente. Tal fu il caso della Grecia antica, tale quello dell'Italia moderna; chè in ciò, come in tante altre cose, la varietà dei nostri destini ci fece soffrire, tra antichi e nuovi, tutti gli sperimenti, ci fece dare al mondo tutti gli esempi. Che il dialetto fiorentino non fosse il primo scritto nè in poesia nè in prosa, quando due fuochi della civiltà italiana erano la Corte siciliana di Federigo II e lo Studio di Bologna, già lo dicemmo; ma dicemmo poi, come passasse tal civiltà a Firenze, come vi si facesse più progressiva, come Dante fosse figliuolo non unico, non primogenito, ma principalissimo di tal civiltà. Che fin d'allora i Toscani vantassero il loro volgare come principale della lingua italiana, vedesi dal capo XIII del Volgare Eloquio. Naturalmente crebbe tal vanto di principato dopo Dante, Petrarca e Boccaccio e parecchi altri, per oltre a due secoli, che Firenze rimase pur prima della civiltà italiana. Cadutane essa, poi, per qualunque ragione, volle il principato di lei volgersi in tirannia: misera e minutissima tirannia di paroluzze o parolacce, riboboli e modi di dire popolareschi e furbeschi; che fu allora opportunamente rigettata con proteste di fatto e ricerche di diritti, come succede a tutte le tirannie.
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