. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . miraQuanto è il convento delle bianche stole;
Vedi nostra città quant'ella gira;
Vedi li nostri scanni sì ripieni,
Che poca gente ormai ci si disira.
In quel gran seggio, a che tu gli occhi tieniPer la corona che già v'è su posta,
Prima che tu a queste nozze ceni,
Sederà l'alma che fu già augostaDell'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia
Verrà in prima ch'ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v'ammalia,
Simili fatti v'ha al fantolino,
Che muor di fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel fôro divinoAllora tal, che, palese e coverto,
Non anderà con lui per un cammino:
Ma poco poi sarà da Dio soffertoNel santo officio; ch'el sarà detruso
Là dove Simon mago è per suo merto,
E farà quel d'Alagna esser più giuso.
Parad. XXX. 130-148.
Non fu ignorata dunque da Dante l'universale avversione degli Italiani, ch'ei paragona al fantolino, cacciante la balia. Ma fu il paragone anche più compiuto che non credette il Poeta. Slattata era l'Italia compiutamente dagli imperadori, nè fu disposta a meglio riceverli mai più. Quando, due secoli dopo, Carlo V ebbe gran potenza in Italia, ei l'ebbe meno come imperadore, che come principe di Stati potenti addentro ed a cavaliere della nostra penisola.
Altro tributo, poi, della venerazione di Dante ad Arrigo doveva essere il libro, ch'egli aveva allora incominciato e intendeva a lui dedicare, della Monarchia. Non finito alla morte d'Arrigo, dedicollo poscia a Lodovico il Bavaro, uno dei due che, dopo quattordici mesi d'interregno, furono eletti a succedere, essendo l'altro Federigo figliuolo d'Alberto austriaco.
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