Vedemmo e vedremo fino all'ultimo, Dante pospor sempre rettamente la vita contemplativa all'attiva, i suoi studii ai carichi datigli dalla sua Repubblica, dalla sua parte, ed anche da' suoi protettori d'esilio. Ma gli altri, datigli prima e dopo, furono ufficii adeguati a lui: questo non era, nč dovea parergli tale; ed č a dir de' carichi ciņ che dicemmo delle compagnie, che i superbi infelici s'adattan meglio a non averne, che ad averne d'indegni. Ora, di tal sentire di Dante noi abbiamo, non una traccia, ma una prova in quel passo della dedica testč recata; dove si lagna che le strettezze di sue facoltą gl'impediscono gli studii ulteriori; e spera dalla magnificenza di Can Grande d'essere sollevato da tali impedimenti. Furono passate senza attendervi nč spiegarle tali lagnanze e speranze dagli interpreti; ma non potendosi spiegar altrimenti che per qualche carico che usurpasse in modo ingrato il tempo e i pensieri del Poeta, ei debbe spiegarsi per questo di che abbiamo memoria. Adunque, parmi appena da dubitarne: Dante fu fatto giudice in Verona dalla magnificenza del signor Can Grande, che vedemmo cosģ poco sagace o gentile apprezzator di uomini. E Dante, dopo aver qualche tempo morso il freno, e provato questo strale di pił dell'esilio, il superbissimo Dante se ne liberņ senza badare se offendesse, ed offese. Uno de' Canti del Paradiso fatti colą e mandati a Cane, l'XI, che non č cosģ nč de' primi nč degli ultimi, incomincia con quegli ammirabili versi che sono in fronte al presente capitolo; e che introdotti senza necessitą da una spontanea ispirazione, accennano la condizione dell'animo dello scrivente, e debbon dirsi uno sfogo, un canto d'allegrezza dopo aver rimosso da sč, o di fatto o almeno scrivendo, tutte quelle cure de' mortali ch'ei chiama insensate.
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