Della quale, non pur ci è serbata memoria dal Filelfo, ma ci è dato il principio così: «Dovendo de' fatti nostri favellare, molto debbo dubitare di non dir con presumptione, o mal chompositamente cosa alcuna etc.»738 Gran danno certamente la perdita di tale storia, una delle più belle che si possano fare fra le speciali nostre, e che avremmo avuta così da un contemporaneo ed un Dante. Ma non fu opera del tutto perduta, se maturossi, com'è a credere, in tal fatica salutare, la grande anima di Dante, appressantesi al fine di sua dimora terrena.
CAPO DECIMOQUINTO.
IL PARADISO
(1320 incirca).
La gloria di colui che tutto muove.
Parad. I.
L'ultima Cantica, terminata intorno a questi tempi da Dante, e di che perciò prendiamo qui a dar una idea, è tra le tre parti, tutte difficili e sovente oscure della Commedia, quella che ha nome di più difficile e più oscura. Nè il nome inganna; e invano sforzerebbesi chicchessia di ridestar nel comune de' lettori l'attenzione che Dante non procacciò a sè stesso. Il comune de' lettori è, e sarà sempre trattenuto dagli ostacoli e dalle allegorie qui crescenti, dall'ordine de' cieli disposto secondo il dimenticato sistema di Tolomeo, e, più di tutto, dalle esposizioni di filosofia e teologia, cadenti sovente in tesi quasi scolastiche. Eccettuati i tre canti di Cacciaguida, ed alcuni altri episodii, ne' quali si ritorna in terra, e i frequenti ma brevi versi in che di nuovo risplende l'amore e Beatrice, il Paradiso sarà sempre meno lettura piacevole all'universale degli uomini, che non ricreazione speciale di coloro a cui giovi ritrovare espresse in altissimi versi quelle contemplazioni soprannaturali che furono oggetto de' loro studii di filosofia e di teologia.
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