Già l'Arrivabene dubitativamente scriveva: «Ma è da credere che l'infame Pataffio sia veramente opera di quel Latini che nel Tesoretto e nel Favolletto sì altamente mordeva il turpe vizio?» (pag. 541). Ed il Zannoni, nella Prefazione alla bella ristampa del Tesoretto, da lui procurata nel 1824 in Firenze scriveva, a pag. XXXVIII, queste parole: «Il Pataffio si è lungamente riputato, e ancor da molti si reputa, opera di Brunetto; ma neppur esso fu composto da lui. Un Codice della Laurenziana, scritto nel secolo XV, lo attribuisce ad uno dei Mannelli; e ciò fece noto il Bandini nel Catalogo di quella Libreria. Di poi, il chiarissimo signor Francesco Del Furia lo tolse con evidenza a Brunetto, rintracciandovi assai cose che sono men che esso antiche; delle quali io taccio perchè ne avrà il pubblico dallo scritto di quel dotto uomo pienissima contezza.» La memoria del Del Furia fu pubblicata negli Atti dell'Accademia della Crusca, ed un erudito estratto se ne fece nel giornale napoletano Il Caffè del Molo. Anche il Tommaseo, nelle note al Canto XV dell'Inferno, asserisce che non è di Brunetto l'infame Pataffio; nè i due Villani (Giovanni e Filippo) che pur fan menzione di altre sue opere, nominano menomamente questa: la quale è tuttora fra i testi di lingua, e che per la prima volta venne pubblicata in Napoli nel 1788, con licenza de' superiori, e con lunghi commenti tratti da quelli del Ridolfi e del Salvini, per cura di Luigi Franceschini della Congregazione della Madre di Dio.
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