- Ah, è vero... mio padre è fallito, mi diceva lo zio! - Poi, con grido straziante, nascose il volto fra le mani.
- Lasciatemi, cugina, lasciatemi! ... Dio mio! Dio mio! perdonate il babbo... Oh, quanto ha dovuto soffrire! -
V'era un non so che di terribile e di commovente in quella angoscia giovanile, vera, schietta, senza calcolo; qualcosa di fieramente pudico, che le anime semplici delle due donne compresero subito, non appena fece loro cenno di lasciarlo solo. Scesero tacite a riprendere i loro posti vicino alla finestra e lavorarono per circa un'ora senza scambiarsi una parola. La fanciulla aveva visto nella stanza, con un colpo d'occhio, i graziosi ninnoli di toeiletta; le forbici, i rasoi ornati d'oro; e quell'avanzo di lusso in mezzo a tanto strazio aveva accresciuto il suo affetto per Carlo, quasi in forza del contrasto. Mai cosí grave avvenimento né spettacolo cosí drammatico avevano colpito la immaginazione di quei due esseri sempre immersi nella calma e nella solitudine.
- Mamma, noi porteremo il lutto per lo zio.
- Questo deve ordinarlo tuo padre - rispose la buona donna.
E stettero zitte di nuovo, mentre Eugenia tirava i suoi punti con una regolarità di moti da cui un osservatore avrebbe capito a che si volgeva quella meditazione: il piú grande desiderio dell'adorabile creatura era di partecipare, ora, al dolore del cugino. Verso le quattro un colpo brusco di battente fece sussultare la signora Grandet.
- Che ha tuo padre? - chiese alla figlia.
Il vignarolo entrò tutto lieto, si tolse i guanti e si fregò le mani cosí forte che le avrebbe scorticate se la pelle non fosse stata dura come un cuoio di Russia; prese a passeggiare in su e giú, a guardar il tempo, ed alla fine il segreto gli sfuggí.
| |
Carlo Eugenia Grandet Russia Dio Dio
|