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      Non posso dirlo, aveva risposto il nostro uomo; in commercio, il segreto è la prima virtù; e chiamo a testimoni giurati di ciò i miei medesimi accusatori.
      Se sarete condannato, addio impresa!
      , obiettò qualcuno. "La mia è di quelle, che durano anni e rendono, alla fine, il cento per dieci", ribattè con orgoglio il nostro uomo. "Fornite un'idea, almeno!", aveva insistito il giudice. E Sua Eccellenza aveva detto con suprema indifferenza: "Se non mi si chiede altro! Si tratta di una miniera diamantifera!".
      Insomma, fu un trionfo. I piccoli capitalisti supplicarono per ottenere un immeritato perdono, che fu loro generosamente concesso; e i grandi capitalisti, udendo parlar di milioni, drizzaron le orecchie. Fra questi ultimi si parlò molto del processo. "Si è difeso bene; dunque, possiede un'abilità indiscutibile!", esclamavano alcuni. "È stato assolto; dunque, merita la fiducia!", aggiungevano altri. E tutti concludevano: "Bisognerà informarsi e, se del caso, persuadere Sua Eccellenza incognita a mettere in commercio le azioni della miniera". S'informarono: ma buio pesto. "Che furbone!", si mormorava da ogni parte. Però, le azioni vennero fuori: e i grandi capitalisti ne comprarono a sacchi. Anche il giudice del processo ne acquistò una dozzina: e ne avrebbe prese di più, se ciò gli fosse stato consentito dal suo stipendio. E a poco a poco i biglietti di banca sostituirono, nella cassaforte, i bigliettini amorosi. Solo i piccoli capitalisti brontolavano. L'albergatore, anzi, valendosi dell'antica amicizia, osò dire a Sua Eccellenza incognita: "Se i pezzi grossi si accaparrano tutto, poveri noi!


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Commenti al libro delle fate
di Pierangelo Baratono
Fratelli Treves Milano
1920 pagine 119

   





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