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      Il giovane furbo continuò ad abitare in quella casa e a divider la stanza con la ragazza. Aveva compreso subito d'esser capitato fra gente un po' feroce, ma, in fondo, alla buona. E poi, lì dentro, tutti gli dimostravano simpatia. Anzi, il colosso non si recava più, la sera, nelle taverne; tanto desiderava godersi la conversazione del naneronzolo.
      - Ohè, compare, - chiedeva, - credi proprio che la forza sia una gran virtù, ma non basti a render l'uomo felice?
      - Certo, - rispondeva il giovane: -- tu, per esempio, sei il più gagliardo della città; eppure sgobbi l'intiero giorno e sei stimato al pari dell'ultimo manovale. Bell'esistenza! Bella felicità!
      - Oh, cosa dovrei fare?, - mugghiava il colosso.
      - Dovresti dire agli altri: Io ho i muscoli più grossi dei vostri; dunque, valgo più di voi.
      - E dopo?, - insisteva il colosso.
      - Dopo, gli altri ti ubbidirebbero e lavorerebbero anche per te.
      L'omone rimaneva pensieroso. Ma la sua figliuola era pronta a gettargli le braccia al collo e a susurrare con voce melliflua:
      - Non dare retta a quel cattivaccio, babbo. Pensa che correresti chi sa quanti pericoli. E poi, sarebbe una cattiva azione, un'offesa alla provvidenza, che t'ha creato perchè ti guadagni il pane col sudore della tua fronte.
      Strana fanciulla! Sempre piena di sogni e di paure, sempre occupata a foggiarsi qualche idoletto chimerico e ad inginocchiarglisi davanti! E con la sua vocina dolce, fin troppo dolce, rimetteva il padre nella strada vecchia meglio che se avesse adoprato redini e frusta.


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Commenti al libro delle fate
di Pierangelo Baratono
Fratelli Treves Milano
1920 pagine 119