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      Cominciarono dai terreni. Eran vigne e vigne che non finivano più, campi che si perdevano all'orizzonte, boschi così vasti da potervi camminare per giorni e giorni senza raggiunger l'aperto. E dovunque si scorgevano individui sudati, curvi a potare, vangare, seminare, tagliare.
      - Bestemmiano un poco, ma lavorano, - diceva il milionario.
      E l'uomo dal ticchio zitto e fermo.
      Si recarono a visitare le officine. Macchine e macchine da non averne un'idea, e confusione d'ingranaggi e vertiginoso movimento di cinghie e un fracasso e un tanfo e un calore, che avrebbero buttato giù anche un bue. Da ogni parte, poi, si scorgeva un brulichio di persone ansanti e trafelate come levrieri dopo una corsa.
      - Si organizzano, - diceva il milionario, - ma di riffe o di raffe ubbidiscono.
      E l'uomo dal ticchio zitto e fermo.
      Andarono nei granai. Eran pieni stipati.
      - È scoppiata una guerra, non ricordo più dove; - dichiarò il milionario. - Quei figliuoli han bisogno di mangiare per mettersi in forze. Ed io li sfamo, in base ai prezzi di guerra: il dieci per uno di guadagno e il trasporto a carico del committente.
      E l'uomo dal ticchio zitto e fermo.
      Passarono negli uffici. Tavole e tavole, sedie e sedie, da sembrare un negozio di mobilia: e un esercito d'impiegati, che imbrattavan di segnacci neri le carte senza mai sollevare la testa.
      - Stan benone, felici loro!, - esclamò il milionario: - dieci ore al giorno di servizio e un compenso di mezzo franco per ora.
      E l'uomo dal ticchio zitto e fermo.
      Infine, entrarono nell'ultima stanza.


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Commenti al libro delle fate
di Pierangelo Baratono
Fratelli Treves Milano
1920 pagine 119