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      Il giovane la sbirciava, borbottava fra i denti: Che selvaggia!; allungava le labbra in una smorfia di nausea e tirava dritto.
      Un giorno, la vide che piangeva per una graffiatura di spina al calcagno; e s'avvicinò.
      - Guardate quanto sangue, padroncino; - singhiozzò la pastorella alzando il piede per far osservare meglio la ferita.
      E non voleva convincersi che un po' di acqua avrebbe lavata e guarita ogni cosa.
      Di parola in parola, il discorso deviò dal campo medico-chirurgico.
      - Non avete paura a starvene in codesto modo?, - chiese il giovane.
      - Paura di che? Se non viene il lupo a divorarmi!, - rispose la fanciulla.
      E i suoi dentini scintillarono fra le labbrucce vermiglie.
      - Altro che lupo! Oh, gli uomini non li contate per nulla?, - replicò il giovane.
      - Gli uomini? E perchè dovrei temerli?, - domandò a sua volta la pastorella sgranando due occhi innocenti e azzurri al pari del cielo.
      - Che papera!, - pensò il giovane.
      Salutò in fretta e partì.
      Col trascorrer dei giorni, i colloqui divennero frequenti. Il padroncino trattava la pastorella come una bimba e rideva delle sue ingenuità; ma quel corpo seminudo gli produceva l'effetto di un pugno nello stomaco.
      L'ambiziosa, che aveva mangiata la foglia, cambiò tattica.
      - Perchè non mi prendete come domestica al castello?, - domandò un giorno a bruciapelo.
      Ed eccola, con un abituccio più cristiano, un paio di calze bucherellate e due zoccoletti, entro la fortezza nemica.
     
     
     *

     
      Il giovane aveva chiacchierato con la pastorella; ma non si curò nè punto nè poco della nuova lavapiatti.


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Commenti al libro delle fate
di Pierangelo Baratono
Fratelli Treves Milano
1920 pagine 119