Beve, sì: ma da barbaro. Così disse, con profonda intuizione di poeta, Carlo Baudelaire. Melanconico per temperamento, privo della divina facoltà della risata ampia e chiara, pronto solo al sorriso dell'umorismo ed agli sghignazzamenti della satira, che sono ancor più dolorosi delle lacrime, Edgar beve in un modo particolare: non come un volgar uomo, cui il vino e i liquori piacciano di per sè stessi, poichè graditi al palato, bensì per gli effetti dell'alcool, che hanno la virtù di alleviare dalle oppressioni della tristezza, dall'incubo delle fantasticherie solitarie, e di aprir l'anima a un respiro, sia pur effimero, di gaiezza libera da ogni peso di ricordi. I bevitori comuni giudican l'alcool un fine, per i varii sapori con cui esso soddisfa il senso del gusto, non un semplice mezzo per cadere temporaneamente a livello degli altri uomini e partecipar, quindi, della lor sciocca, ma riconfortatrice, allegria. I poeti come Poe, invece, devon vincere un'istintiva ripugnanza per accostar le labbra al bicchiere. E bevon da barbari, tracannando il liquido d'un fiato, senza assaporarlo, onde provarne con maggior rapidità gli effetti infernalmente benefici e raggiunger più presto, nell'ebrezza, l'oblio di sè stessi.
Così, Edgar. E un compagno di Università testimonia: "Non era attratto dal sapore del liquido; ma s'impadroniva del bicchiere e, senza neppur sfiorarne con le labbra il contenuto, in un solo sorso lo vuotava."
Gli scienziati, irrimediabilmente incapaci di addentrarsi nell'anima degli artisti, hanno foggiata una grossa parola: dipsomania; e, appeso questo cartellino al nuovo albero, scoperto nella flora dei vizi dell'umanità, sono andati a dormire contenti come pasque.
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Edgar Poe
di Pierangelo Baratono
Formiggini Editore 1924
pagine 58 |
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