Fece ancora due giri battendo rabbiosamente i piedi e cercando di equilibrare il corpo sulle gambette un po' tremolanti; poi si fermò di colpo sotto il ristorante della Posta a guardare con i suoi occhietti maliziosi l'orologio elettrico, che segnava precise le quattro dopo la mezzanotte. Qualcuno gli battè sulla spalla, un cosino esile e ossuto col viso da ragazza e il corpo sprofondato in un abito troppo largo, tutto pieghe e buchi. I compagni lo chiamavano Pipita, forse perchè balbuziente. Aveva in mano la sua lanterna da ciccaiolo e guardava Storno con i larghi occhi azzurri, risparmiati dalla sporcizia, che copriva il resto del viso adolescente.
— Come va la cerca?, borbottò Storno di malumore.
— Poco bene, rispose l'altro fra due colpi di tosse. Non si può girare con questa diavoleria di vento, che ti spenge la lanterna ogni cinque minuti.
— Pazienza!, sogghignò Storno più per concludere un suo interno ragionamento, che per incoraggiare l'amico.
Pipita stette un momento a guardarlo, indeciso, poi si grattò la testa e avvicinandogli la bocca a un orecchio mormorò:
— Sai? Ci ho il buono, qua dentro. E si battè sulla giacca.
Gli occhi del vecchietto brillarono.
— Cos'è?, gli biascicò sul viso.
— È acquavite di quella fine; una bottiglietta.
Storno iniziò uno sgambetto, che per poco non lo mandò a far conoscenza intima col lastrico della Galleria, poi cominciò a tempestare il compagno di domande. Ma Pipita, senza rispondere, si strinse nelle spalle brontolando fra i denti:
— Che importa?
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