Purchè si beva!
Si presero a braccetto, avviandosi lentamente su per la Galleria. Giunti in cima i due si fermarono. Fuori, tirava un ventaccio indiavolato, il solito vento di marzo che par sempre voglia soffiarsi via tutta Genova, tanto s'arrabatta e infuria intorno alle case e su pei tetti.
— Sai, Pipita, cominciò Storno a parlare dopo aver sputato verso quel vento; hai fatto bene a invitarmi. Ho bisogno di bere, questa notte, perchè, non so come, ho persa la tramontana. Mi son venute certe idee, poco fa. Ci credi tu, ai morti?
Pipita sorrise filosoficamente.
— Eh, se ci credo! Ne ho visti seppellire tanti quand'ero aiutante giardiniere a Staglieno!
— No, non quelli. I morti, che ritornano; capisci? Degli altri, me ne infischio.
E sputò di nuovo, due volte.
Ricominciarono a camminare. Il vento si era un po' calmato, accarezzava anzichè sferzare. Ormai, nel silenzio della notte non suonavano più che i passi dei due uomini. Storno taceva, la testa china; quanto a Pipita, egli si era immerso in una delicata operazione, che consisteva nel contare sul palmo della mano le cicche, raccolte durante la serata.
— Diciassette!, mormorò; giorno perso!
Storno alzò la testa. Eran giunti davanti a Pammatone. Il vecchio condusse Pipita a sedere sui gradini dell'ospedale, poi guardò un poco attorno scuotendo il testone irsuto e biascicando qualche parola sotto voce.
Intanto, il giovanotto aveva depositata con precauzione la lanterna al suo fianco ed avea estratta dalla tasca interna della giacca una bottiglia di una certa dimensione e dalla quale si sprigionava un odore acuto di grappa.
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