Le idee affluivano nel loro cervello a folate, vi si intrattenevano un momento, per poi involarsi rapide com'eran giunte. Qualcuna soltanto rimaneva insistente e assumeva l'aspetto di una fissazione. Una vaga tenerezza e un pensiero di famiglia, d'amore comune, di felicità possibili occupavano l'animo di entrambi, assorbendolo e cullandolo in una vana chimera.
Una grande dolcezza li aveva invasi e un bisogno di piangere insieme, di sentirsi strettamente uniti a fondere le amarezze e i singhiozzi.
Giunsero in tal modo in via Ravecca. L'alba già spuntava, colorando il cielo con una morbosa tinta bianchiccia, illividendo il volto dei passanti e strisciando lungo le case e i selciati a infondervi un monotono senso di stanchezza. Era un'alba fredda, pesante, quasi stentata, una specie di luce scialba e annoiata, che tentava di scuotere il torpore della notte e di vincere la furia del vento. Per quella via popolare era già fervido il movimento.
Ad ogni passo i due incontravano gruppi di uomini e di donne, quelli un po' frettolosi col viso stanco, una pagnotta sotto il braccio o con in mano un pezzo di focaccia, che addentavano di quando in quando. Le donne, poi avevano i capelli lucidi e appiccicati sul cranio, gli occhi ancor rossi di sonno, e si sfiancavano sotto il peso dei larghi canestri, colmi di erbaggi. Qualcuno fra i passanti riconosceva lo Storno e si fermava meravigliato a guardarlo camminare con passo mal fermo e con una femmina al fianco. Uno lo apostrofò, sogghignando:
— Ohè! Le sciocchezze si fanno a tutte le età!
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Ravecca Storno
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