V
Un filosofo vagabondo
Il cannone del Castellaccio svegliò, a mezzogiorno, la signorina Scarpette, che stese le braccia e sbadigliò rumorosamente. Nel muoversi sentì che aveva al suo fianco il corpo di un uomo.
— Stupido!, mormorò: dorme ancora!
Non ricordava più nulla di quanto le era accaduto nella notte.
Aveva la testa pesante e le membra indolenzite; gli occhi, poi, le bruciavano maledettamente.
Si volse con stizza verso quell'uomo addormentato, ch'essa credeva uno dei soliti avventori, e lo scosse. Il vecchio Storno alzò la testa e la guardò meravigliato. Chi era quella creatura, che lo aveva svegliato con tanta brutalità? Scarpette, però, aveva riconosciuto il vecchio.
Gli si fece vicino, circondandogli il collo con le braccia e gli sussurrò a un orecchio: Papà. Storno ebbe un sussulto, ricordò anche lui confusamente.
— Possibile!, borbottò; si fa, dunque, sul serio?
— Pare!, gli rispose la donna e si pose a ridere. Rideva anche lui, adesso, rallegrato e un po' solleticato dalla sua nuova posizione.
A un tratto una risata sonora scoppiò al loro fianco.
Si voltarono entrambi.
Uno strano individuo si teneva dritto innanzi al loro letto e li guardava, con le braccia incrociate e la testa curva su quei due corpi. Era un uomo piccolo, vestito con un abito verdognolo, che una volta doveva esser stato nero, e che ora gli copriva le membra magre, tenuto su per mezzo di rammendature e di sapienti operazioni d'ago.
Da tutte le tasche gli uscivano rotoli di giornali vecchi e ingialliti. Possedeva una cravatta a fiocco coi lembi sfilacciati e svolazzanti, una vera cravatta da artista in miseria che circondava un colletto di un colore indescrivibile.
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