Si raccolse un momento. Il volto gli si era un po' calmato, ma le mani gli tremavano leggermente.
— Avevo diciott'anni e possedevo, come suprema felicità, una fidanzata, che adoravo e che le somigliava tanto. Cugini, eravamo cresciuti insieme ed avevamo imparato ad amarci fin da bambini. Ogni cosa era pronta per le nostre nozze. Due giorni prima di queste ci recammo, io, e la mia benamata, a passeggiare per una pineta, che costeggiava il mare, posta vicino a Pescara. La mia fidanzata scherzava e correva, scivolando leggermente sulle foglie secche. Io fingevo di volerla afferrare e le chiedevo un bacio, ch'essa mi negava, nascondendosi dietro i tronchi dei pini. Le ero già vicino, la afferravo già quasi. Essa diede un lancio e si mise a correre. Ad un tratto, le vidi mancare il terreno sotto i piedi, scivolò, senza potersi attenere ad alcun albero, per quel suolo un po' in declivio. Mi precipitai a soccorrerla. Troppo tardi. In uno sforzo fatto per trattenersi a una pianta, essa si era rovesciata indietro ed avea battuta la testa sullo spigolo di un grosso macigno. La vidi boccheggiare un istante, col viso imbrattato di sangue, senza poterla aiutare. Quando le fui vicino, la trovai morta. La pietra le aveva fracassata una tempia.
Dario Cerruti tacque e chinò gli occhi a terra con profonda disperazione. Augusta, anch'essa, non trovò una parola di conforto. Il sangue le si era gelato nelle vene. Essa guardava quell'uomo, colpito prematuramente dal dolore, con un'intensa espressione di simpatia.
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Pescara Cerruti Augusta
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