La camera, nella quale la signora Tilde condusse Augusta, era ampia e bene arredata. Il letto specialmente attirò lo sguardo della fanciulla, un lettone ove quattro corpi potevano comodamente giacere, morbido e coperto da un magnifico drappo.
Augusta chinò il capo; quella grandezza la spaventava. Essa sentiva, in quell'imposizione di lusso, qualche cosa di misterioso e di pericoloso. Non aprì bocca, malgrado che la padrona di casa le chiedesse reiteratamente se era soddisfatta.
Quando fu sola, si gettò sul letto senza togliersi di dosso i vestiti.
Era molto stanca ed inquieta. Il suo pensiero galoppava dietro fantasmi e si creava a vicenda paure e speranze. Costruiva magnifici edifizii di fantasia, ove si vedeva, con a fianco la sua piccina, trascorrer la vita fra le agiatezze; poi, al primo colpo del timore, li osservava crollare, snebbiarsi sotto l'immagine di quel feroce volto del Cerruti o dei lineamenti astuti della sua nuova padrona.
A poco a poco i ricordi e le idee si confusero nel suo cervello. Intravide ancora l'antico amico Maglino, che portava sulle braccia una bimba, udì la voce melliflua della signora Tilde, che la chiamava, poi si addormentò.
Il domani venne svegliata da un rumore di risate, che partiva dalla stanza attigua. Un visetto birichino sporse dall'uscio socchiuso della sua camera, poi una voce fresca e argentina suonò:
— Signorina, è permesso?
Il visetto si ritrasse.
Augusta udì ancora delle risate, poi la voce un po' alta della signora Tilde, che sembrava sgridasse, poi più nulla.
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