Era vero. Che importava un delitto di più ad un uomo, che ne aveva già commessi tanti?
Ormai ero destinato a scivolare nell'abisso del canagliume.
Passai tre giorni in delirio, durante i quali ebbi a compagno e ad infermiere il Cerruti. La paura, ch'io palesassi nella febbre il delitto, lo rendeva assiduo al mio capezzale. Infine, la malattia prese un aspetto benigno.
La congestione cerebrale aveva, però, sconvolte le mie facoltà. La ragione, già indebolita dagli stravizii, si era completamente dissipata. Mi rendevo conto di ciò, che succedeva intorno a me; ma il povero cervello era soggetto all'acuto pungolo della pazzia e del furore.
Il Cerruti, rassicurato della mia stessa demenza, che impediva agli altri di dar peso alle mie parole, s'incaricò di pagarmi un posto nel manicomio di Quarto, ove entrai per viverci due anni e uscirne poi sfigurato dal dolore e dalla demenza.
VII
Una ridda di pazzi
All'epoca, in cui abitavo nel Manicomio, non esistevano ancora certi mezzi terapeutici, che sono in vigore adesso.
La cura si limitava a una serie di doccie, a un regime alimentare confaciente alla malattia e ad una sorveglianza continua che controllava i nostri atti fra le desolanti mura dell'edificio.
Io ero uno dei pazzi più pericolosi, poichè davo spesso in smanie e andavo soggetto a convulsioni periodiche. Tuttavia, nei brevi intervalli di riposo, ragionavo e comprendevo come qualsiasi altro mortale non affetto da follia. Conservo molti ricordi di quel tempo, alcuni cari, altri piuttosto dolorosi.
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