Ormai, la sua casa era diventata il ritrovo dei giuocatori. Soltanto io ed Augusta ci appartavamo da tutti.
Avevo cominciato ad istruire la bambina e sentivo crescere ogni giorno nel mio animo l'amore verso di lei.
Quella sua ingenuità mi suggestionava, mi faceva provare le ebbrezze di un padre. Talvolta, guardavo con odio la stessa Sofia, poichè divideva con me l'affetto della piccina.
L'avrei voluta tutta per me; spesso mi sentivo trascinato a confessarle chi fosse sua madre, ma mi arretravo innanzi alla scabrosità di una simile rivelazione.
Ero diventato il cagnolino, lo schiavo di Augusta. Una parola, un gesto della bimba mi facevano commettere ogni pazzia. Meditavo di rapirla e di condurmela in qualche casa, spersa sui monti. Vi parrò sciocco, caro Perroni. Ma pensate che, fino ad allora, ero vissuto senza affezioni. Avevo bisogno anch'io di un po' di gioia. Anche Augusta mi corrispondeva e riponeva in me tutta la sua confidenza.
Un giorno, le chiesi:
— Gustina, chi ami più, me o la mamma?
Si fece pensierosa, poi si mise a ridere:
— Gianni, Gianni, amo Gianni!
— Brava! Ma a tua madre non pensi?
— Oh, sì! Ma tu sei il babbino. E poi, la mamma non mi vuol bene.
Quelle parole mi rattristarono e mi sedussero a un tempo. Purtroppo quella creaturina civile e dolce era abbandonata da tutti. Soltanto io potevo salvarla. Da allora feci dentro di me giuramento di consacrare la mia vita ad Augusta.
Troncai ogni relazione e cercai di accumulare denari.
I miei spassi, che un tempo rubavano tutte le mie ore, si limitavano, adesso, ai momenti, che trascorrevo scherzando con la bambina.
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