Non quella fine noi avevamo sognata nei nostri antichi e buoni colloqui!
Non potei vederlo per molti giorni. Infine, seppi ove abitava. Mi recai da lui, con l'animo sospeso. Un vicolo pieno di folla e di rumore, una scaletta nera e umida. Bussai alla porta. Mi aprì una donna, la moglie. Io l'avevo indovinata, prima di vederla. Era una giovane, abbastanza bella, ma dai lineamenti rigidi di arpia. Mi fissò addosso due occhi duri e indagatori. «Mio marito? È a letto». «È malato?» chiesi. «Oh, no! E un fannullone. Non vuol lavorare; e intanto qui c'è il bisogno». Mi introdusse in una camera, ingombra di cenci e di libri stracciati. Il mio amico era in letto, in un lettuccio di ferro dalle lenzuola sporche. Mi sorrise, mi fece segno d'avvicinarmi. Aveva una pallidezza non più umana. Mi strinse la mano, ma così debolmente da sembrare che la sfiorasse. Pure, io sentii da quel rapido tocco un'impressione scottante, come se avessi preso fra le dita un tizzone.
«Sei venuto a tempo», mormorò e sorrise ancora, ma non più a me. Mi sedetti sul lettuccio, cercai di farlo parlare.
«Prendi quel manoscritto», mi accennò; «leggimi qualcosa». Era un suo poema, bellissimo, impregnato d'una meravigliosa dolcezza. Man mano ch'io leggevo, il suo corpo si sollevava, gli occhi gli si animavano sempre più. Sentivo già il suo alito caldo sfiorarmi una guancia. Quando giunsi all'ultimo verso, ebbi una sensazione di freddo ed udii un tonfo. Il mio povero amico era ricaduto di peso sul letto. Aveva sempre il sorriso sulle labbra.
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