Lo scultore riprese a camminare a capo chino, a fianco della donna fulva, che rideva tuffando il viso in un mazzo di rose purpuree.
Il soliloquio dello straccione
Qualche volta anch'io medito al chiaro di luna. Immagino d'essere un poeta, di possedere una visione mia, una mèta di gloria e d'avere la forza di volontà e la ricchezza di sentimento necessarie per conquistarla. Allora siedo ai piedi di qualche albero solitario, sperso nella campagna, e mi lascio cullare dal mio sogno, agevolato dalla viva bianchezza lunare. Momenti rapidi di felicità, nei quali compongo certi miei canti dolorosi, eppur pieni di speranza, povere cose di un pover'uomo! Poi, a un tratto, alla svolta di un verso, innanzi alla difficoltà di una rima mi sveglio. Per chi comporrei questi canti; forse per me, cane randagio in cerca di nutrimento, o per la luna, che indifferente fa spiovere la sua luce sul mio corpo come sul tronco freddo e scabro dell'albero, che serve d'appoggio al mio dorso? Oppure per quei pochi amici, bisognosi al pari di me e più desiderosi di una buona mensa che di versi cattivi? O per i miei veri amici, i gatti vagabondi dai grandi occhi pieni di curiosità, scintillanti nelle tenebre della notte? I gatti! Li ho amati e li amerò sempre come i miei più cari compagni. Sono i consueti consolatori, sia ch'io ripari il mio corpo in qualche buio porticato o che mi ponga alla ricerca faticosa di qualche avanzo di cibo fra mezzo ai mucchi d'immondizie, addossati ai muri dei vicoli. La comunanza di banchetto e di giaciglio, e fors'anche un inconscio senso, che mi addita ad essi come un amico, me li rende subito favorevoli.
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