* *
Una notte trovai chiusa la porta della sua camera. Credetti per un istante che il mio amico non fosse in casa, quantunque conoscessi le sue inveterate abitudini d'ordine e di regolarità. Tuttavia, per sincerarmi, bussai leggermente all'uscio. Silenzio, dapprima. Poi, ad un tratto, udii lungo, straziante come rantolo di moribondo, un urlo spaventevole, una specie di ringhio pauroso e stridente. Divenni pallidissimo; pure mi sforzai alla calma e aprii la porta violentemente. La stanza era illuminata. Il mio amico, a pochi passi dall'uscio, si teneva dritto, i capelli rigidi sulla fronte, gli occhi bianchi e dilatati, il corpo percorso da un tremito. Una spuma sanguigna gli colava dalla bocca spalancata. In un attimo gli fui vicino, lo scossi, cercai di portarlo sul letto. Dapprima non mi riconobbe e continuò a guardarmi con gli occhi larghi e bianchi non cessando di emettere il suo strido pauroso. Infine tornò in sè; i lineamenti gli si ammorbidirono, i capelli gli caddero di nuovo lunghi sulla fronte, gli occhi si rimpicciolirono, ridivennero normali. S'asciugò le labbra e tentennando andò ad appoggiarsi alla spalliera del letto. "Non vorrei che qualcuno avesse sentito", mormorò; "ascolta se nella casa c'è qualche rumore". Tutto riposava nel silenzio. Lo rassicurai come mi consentiva lo stato agitato del mio animo; infine, gli chiesi se poteva dirmi la causa del suo malessere. Mi guardò con imbarazzo, poi chinò il capo. "Ho voluto esser forte", disse; "ho voluto provarmi". Poi tacque.
| |
|