Prima di lasciarci ci stringemmo a lungo la mano: sentivamo un pianto dentro di noi. Tornai dopo qualche mese di vita randagia e chiesi nuove del mio nottambulo; ma non potei saperne nulla di certo. Infine, lo trovai per caso all'angolo di una via. Era spaventosamente magro, d'una magrezza spettrale. La schiena gli si era curvata ancor più; gli occhi, profondi sotto le arcate del cranio, gli scintillavano come presi dalla febbre. Mi salutò con gioia. Ma, nel discorrere, intesi in lui qualcosa di stentato, un imbarazzo come di chi vuol nascondere i propri pensieri. Disse che s'era stancato della vita solitaria e che avea preso moglie, una brava donnina economa. Sorrisi e non gli credetti. Un poeta come lui non poteva trovare la felicità nel matrimonio. Fin da quella sera riprendemmo le nostre antiche passeggiate pei campi. Però il mio amico sembrava ogni volta più melanconico e stanco; si trascinava più che non camminasse. Una sera mi confessò che la moglie non era contenta delle sue assenze notturne. Finimmo col non più uscire dalla città. Il mio amico voleva tornare a casa presto, diceva, perchè aveva da lavorare; e poi, non si sentiva più in forza. Lo accontentai. Solo qualche volta restavamo ancora insieme sino a tardi; ma, anzichè incamminarci all'avventura pei campi, preferivamo andare a sederci al "Carenaggio", una trattoria nella quale, dopo mezzanotte, si radunavano forestieri ubbriachi, giovinastri e donnine dalle vesti smaglianti e dagli occhi gonfi dì sonno. Ci raccoglievamo in stanze puzzolenti di cucina, intorno a tavole imbandite con un falso lusso di argenteria galvanica.
| |
|