Noi la ammirammo, in quel momento. Pure il mio amico non le lasciò terminare il suo inno. "Io vi obbligherei", la interruppe, "per punirvi della vostra avidità di mala femmina, a farvi pagare in monete d'oro suonante e a non spendere il vostro guadagno. Voi dovreste vestire modestamente, mangiare e bere in una data trattoria a prezzi modicissimi. Così vi abbandonerei all'ossessione di un tesoro sempre più accumulato e che mai potreste intaccare."
Fu quella l'ultima notte, che passai in sua compagnia. Presentivo una disgrazia e pensavo con dolore a quella povera anima strappata dalle sue immaginazioni notturne e posta in una serra troppo calda e troppo inadatta al suo vagabondaggio nei paesi dell'armonia e del mistero. Non quel naufragio noi avevamo sognato nei nostri antichi e buoni colloqui e nelle pazze escursioni delle notti lunari!
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Non potei vederlo per molti giorni. Infine, seppi dove abitava e mi recai subito da lui, con l'animo sospeso. Un vicolo pieno di folla e di rumore, una scaletta nera e umida. Bussai alla porta. Mi aprì una donna, la moglie. Io l'avevo indovinata, prima di vederla. Era una giovine, abbastanza bella, ma dai lineamenti rigidi di arpia e dall'espressione risoluta. Mi fissò addosso due occhi duri e indagatori. "Mio marito? È a letto." "È malato?", chiesi. "Oh, no! È un fannullone. Non vuol lavorare; e intanto qui c'è il bisogno." Mi introdusse in una camera, ingombra di cenci e di libri stracciati. Il mio amico era in letto, in un lettuccio di ferro dalle lenzuola sporche.
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