Essa trascorreva le sue ore nella raccolta solitudine della camera o fra la calma spaziosa dei colli. Talvolta, Damianti mi pregava sommessa di rinunciare al nostro affetto e di render la pace alla sorella. Ma le mie parole e più ancora la viva espressione dei miei sentimenti dissipavano presto la nube del suo dolore e rendevano il sorriso alle sue trepide labbra.
Una sera, tornavo da una breve passeggiata, allorchè mi imbattei, sulla strada provinciale, in Mehara, sola ed assorta. Imbarazzato dall'improvviso riavvicinamento, tentai di balbettare una frase banale, la prima che mi venne alle labbra. Ma rimasi muto e impietrito di terrore innanzi al selvaggio aspetto, che aveva in un attimo assunto il volto della fanciulla. Ora la luna, illuminandola in pieno, rivelava un viso pallido come marmo, sul quale si aprivano gli occhi, scintillanti e profondi come golfi di luce, fissi su di me con un'espressione di odio implacabile.
- In nome del cielo, Mehara, che avete? esclamai.
Mi posò una mano sul braccio, con violenza:
- Non hai compreso, dunque? Non hai compreso che, facendoti amare da mia sorella, suscitavi la passione anche nel mio cuore? I sentimenti di Damianti sono i miei, come la sua vita è la mia. Non si può rubare l'anima all'una, senza prendere quella dell'altra. Essa lo sa, essa; ma tenta di dimenticarlo. Insensata! Le nostre due esistenze sono intimamente legate, come le nostre due anime. E tu non lo hai compreso, non sei riuscito a leggere nel libro del destino! Ben presto ogni cosa sarà chiara per te, ma dopo quali dolori!
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Damianti Mehara Mehara Damianti
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