Qual notturno beffardo, quale straccione avvezzo allo scherno della miseria lo chiamò, per il primo, Re Torbido? Forse a un poeta delle tenebre, a un nottambulo artista venne spontaneo alle labbra un tal nome. Allorchè per la prima volta egli sentì suonare all'orecchio quelle due parole, sorrise, annuendo con un gesto breve e con un rapido volger d'occhi. Re Torbido!
Quale colpa aveva macchiata la vita di quell'uomo, sì da costringerlo ad abbandonare il proprio paese soleggiato per rifugiarsi nella nebbia e nella solitudine? Nessun vagabondo osava parlare, se non a bassa voce e in crocchio di amici, di quel passato, che molti intravedevano tenebroso. Sovra tutti, anche da lontano, pesava l'immagine di quel volto rabbuiato e di quelle mani fini, ma piene di forza.
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Un giorno, Re Torbido trovò finalmente un amico. Lo vide sulla porta di una bottega di erbivendolo e lo riconobbe subito
- Sei tu, Arviò? Che fai?
Quello si volse impetuoso verso di lui; poi si gettò con un "oh!" di meraviglia fra le sue braccia.
- È tuo?, chiese ancora il vagabondo, accennando al piccolo negozio.
- Sì, proprio mio.
Un ometto magro e nervoso, quell'Arviò, con gli occhi sporgenti come bulbi e il naso a punta, rubizzo.
- Sai, gli disse Re Torbido smozzicando le sillabe; mi son dato anch'io al buono.
- Oh, e come?
- Lavoro.
Quando l'altro seppe del soprannome, appiccicato all'amico, sghignazzò:
- Buono, buono, e bene appropriato! Vieni dentro. Berremo insieme. E ti farò conoscere mia moglie.
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