Tuttavia la sua Musa non era triste; anzi, lepida e leggera si compiaceva nella satira e sforzavasi di superare, in una gara geniale, quelle di alcuni invidiosi anonimi, costruttori astuti di sonetti. Fra costoro il poeta Ciccillo confessava dignitosamente agli amici di annoverare i più noti scrittori d'Italia. Le sue risposte le componeva sovra tavolini di caffè, sbattendo le palpebre come uno scimmiottino, che abbia trangugiata una buccia di limone, e sorridendo mefistofelicamente a sè stesso.
Un bravo ragazzo, in fondo, con una dose rilevante di furberia infantile, bilanciata purtroppo dalla coscienza della propria grandezza... morale.
Tutti lo conoscevano, tutti lo chiamavano col famigliare nomignolo di "poeta". Aveva anche molti nemici, accaniti contro il suo lucido ingegno, i quali lo angustiavano con piccole malizie di collegiali o, peggio, di provinciali. Ma il bravo Ciccillo si rasserenava presto, attingendo a piene mani forza e coraggio nella fama, che di lui s'era sparsa per l'universo facendo sospirare le fanciulle e piangere i torchi del più influente giornale del luogo. Era anche modesto; ma, santo Dio!, nessuno poteva pretendere che rinnegasse la superiorità benignamente concessagli dalla natura! A volte il suo cuore soffriva per l'umiliazione dei meschinelli, che l'avvicinavano; ma egli sentiva, sopra ogni cosa, il dovere di salvaguardare la propria missione di vate. Perciò, ad un nuovo conoscente, che gli chiedeva se dovesse chiamarlo "signor poeta" o "signor Ciccillo", si sentì obbligato in coscienza a rispondere: Eh, via!
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