La mia distrazione in compagnia, quell'aspetto chiuso e più ancora quell'abbattimento, disgustoso agli occhi di chi è forte e felice, mi fecero sembrare antipatico e pesante. Non potevo più sorridere, capite? Non avevo neanche la facoltà di sognare. Le parole sfuggivano a stento dalle mie labbra; l'occhio, fatto torbido, non distingueva più gli uomini e le cose: il cervello soltanto lavorava, ma in qual modo! Una continua ansia, un continuo rammaricarsi di quella dolorosa situazione, e poi una rassegnazione, più dolorosa ancora della inutile rivolta, erano le sue occupazioni. A volte io aprivo le braccia, le tendevo verso l'alto, verso quel sole, di cui non potevo quasi più distinguere i raggi. E sentivo l'ombra, l'ombra spaventosa seguire i miei movimenti, sentivo quella guaina di tenebre allungarsi su per le braccia protese, per poi restringersi di nuovo intorno a me, in un umido amplesso.
Cercavo un'occupazione per vincere la miseria. Ma chi avrebbe voluto innanzi a sè il fantasma della mia anima? Chi avrebbe tollerata la vicinanza cupa, monotona, angosciosa di quell'essere spettrale, ch'io ero divenuto?
Un giorno credetti di aver vinto il destino.
Una fanciulla, delicata e sentimentale, s'impietosì del mio dolorare e m'invitò a dividere la sua vita piena di gioia. Ricominciai a provare l'ebbrezza dell'esistenza e mi sentii di nuovo forte ed atto a godere. A mia moglie dovevo la felicità, la poesia, l'amore. La idolatrai, mi consacrai interamente a quella creatura, dolce come una primavera.
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