Seduto accanto ad un tavolino, carezzava con un gesto monotono della mano il mento aguzzo.
- Chi è?, chiesi a un vicino, additando l'oggetto del mio esame.
- Chi? Quel giovane? È Miserere, Giorgio Miserere, l'ultimo dei romantici.
- Che vuol dire?, domandai ancor più incuriosito.
- Oh! È un poeta, e d'ingegno, ma troppo pieno di lagrime e di malinconia.
Mi avvicinai, un po' trepidante, al misterioso poeta e gli chiesi il permesso di conversare con lui. Dapprima mi guardò con aria meravigliata, come d'uno che si svegli da un lungo sonno; ma subito sorrise amichevolmente e mi accennò di sedere al suo fianco.
Dopo mezz'ora eravamo amici. I suoi discorsi presentavano uno strano contrasto con la fisonomia: erano piacevoli, variati, leggermente umoristici. La voce aveva inflessioni dolci ed affascinanti; si sarebbe rimasti a udirla per ore e ore.
Ci trovammo insieme più volte. Amavamo entrambi le passeggiate notturne, per le vie più deserte della città, ove risuonavano soltanto le nostre voci e non si scorgeva di vivo che qualche gatto solitario, volto in fuga dal nostro avvicinare.
Il mio nuovo amico era un poeta nel più puro senso della parola; s'inebriava di visioni, seguendo il ritmico volo della sua fantasia, e ne parlava come di cose reali. Adorava tutto ciò, ch'è bello, e trovava parole dolci per ogni suo sentimento. Discorreva spesso come un ispirato, entusiasmandosi del proprio sogno: allora, il suo viso diveniva bellissimo di gioia e le sue mani tremavano. Solo di quando in quando cadeva in una specie di letargo melanconico, che si risolveva in una crisi di lagrime.
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Miserere Giorgio Miserere
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