Ahimè! Neanche la consolazione di Silvio Pellico m'era concessa dalla fortuna! Le pareti della mia stanza, spiegate innanzi ai miei occhi come quattro grandi fogli di carta, avevano più volte indotta la mia mano a segnarvi su qualche frase, dettata dalla mia angoscia. Pure, m'ero sempre sottratto alla tentazione, poichè sapevo che più crudele sarebbe apparsa la mia prigionia il giorno, in cui avessi potuto rileggere i segni visibili delle ambasce passate.
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Un giorno, mentre, seduto sul tavolaccio, lasciavo libero il corso ai più tetri pensieri nè m'avvedevo che lacrime di rabbia e di disperazione scorrevano sulle mie guance, fui violentemente distratto dalle mie riflessioni da un rumore come di un corpo che urtasse contro la porta. I miei occhi, rivolti verso di questa, videro allora un topo grigio, piuttosto grosso, che, sbucato di sotto al legno, si era fermato vicino al muro volgendo i vivi occhietti ora a me, ora all'uscio. Al di là di questo sentivo distinto il soffiare stizzoso di un gatto e vedevo sporgere dall'interstizio, lasciato tra il legno e il pavimento, la punta di una zampetta felina.
Il topo era sempre lì, immobile. Un'idea mi passò rapidamente pel cervello. S'io avessi potuto impadronirmi di quel piccolo essere, ne avrei fatto un compagno del mio abbandono. Tentai di attirarlo con un leggero richiamo. Con mia meraviglia vidi il topo avanzarsi saltellando verso di me, fissandomi sempre con i suoi furbi occhietti. Ai piedi del letto si fermò di nuovo.
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Silvio Pellico
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