Ogni giorno, per ore e ore, queste macchine da tavolino, automi condannati a un rassegnato lavoro, si sforzano di accumulare innanzi a sè, sul tavolo coperto di macchie d'inchiostro e tormentato da colpi di temperino, il prestabilito numero di fogli, scritti col solito carattere ufficiale, che è un di mezzo tra il calligrafico e il puerile. Salvo, però, in assenza dei superiori, a raddrizzare un poco la schiena, guardandosi attorno con una cert'aria soddisfatta e scambiando quattro parole coi vicini di lavoro.
Eterni bambini, che il bisogno ha costretti nei suoi vincoli grevi, foggiandoli come esperto artefice al loro ambiente! Umili coi forti, arroganti con gli inferiori: questa, in genere, la loro divisa. Non conoscono o poco il lavoro paziente e comune della formica; la loro stessa posizione di appena sfamati li obbliga a una lotta senza tregua con i colleghi per la gratificazione o per l'avanzamento: lotta sorda, ostinata, nascosta sotto un'apparenza melliflua e amichevole e che pure lascia sovente sul campo vittime vergognose.
Ho conosciuto intimamente uno di questi colpiti dalla malignità del destino. Il mio amico, però, si staccava molto dal tipo comune. Era un sognatore, un poeta, tutto, tranne un impiegato. Il giorno lo passava curvo a scrivere sul suo tavolo d'ufficio; ma la sera e la notte rubava le ore al sonno e al riposo per godere interamente la sua libertà relativa. Talvolta, seduti in un angolo di osteria, il bicchiere pieno innanzi a noi, tra il denso fumo e il puzzo d'olio e di alcool e le grida dei marinai, ci facevamo reciproche confessioni.
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