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      Ma intorno a ciò il marchese Galeotto non istava più in forse e ben sapeva che cosa pensarne, cioè che i Genovesi si studiavano di tenergli a bada la lega, e frattanto si disponevano con ogni diligenza ad assalirlo, sperando di averlo atterrato, innanzi che gli altri si fossero mossi a difenderlo. Ora, che la lega del parentado fosse per aiutarlo, non dubitava il marchese; anche pur dianzi, al suo inviato, tutti ad una avevano fatto le più solenni promesse. Quanto a sè ed alle forze raccolte nel Finaro, egli si teneva abbastanza sicuro, da credere che i Genovesi avessero per quella volta fatto male i lor conti. Questo era l'essenziale. Piuttosto, gli doleva del Bagnasco, così largo promettitore in principio, e adesso, secondo gli riferiva Giacomo Pico, tanto irresoluto e difficile a muoversi per un verso o per l'altro. Ma forse, pensava Galeotto (e questo pensiero lo consolava un tratto) la guerra, incominciata che fosse, anche al lontano amico avrebbe sgranchiato le gambe.
      E la guerra stava appunto per rompere. Là, a poche miglia discosto, sulla spiaggia di Vado, che è tra Noli e Savona, i Genovesi facevano gente. Da un momento all'altro, chi sa, potevano anche apparire i primi scorridori dell'esercito nemico sulle alture della Briga, e scendere in valle di Pia. Ed era questa la nuova, che dava a messer Giacomo Pico di Bardineto il marchese Galeotto, in ricambio alle molte del suo messaggiero.
      Il quale, d'ambasciatore rifattosi uomo d'armi in un subito, uscì dal borgo, varcò il torrente dell'Aquila, e, per la via più spedita, che s'inerpicava alle spalle di Monticello, corse a vedere se fossero bene asserragliati i passi di monte Tola e Calvisio.


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Castel Gavone
Storia del secolo 15.
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1875 pagine 304

   





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