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      - Non ti poteva per avventura andar peggio?
      - Ah, non me ne fate ricordare! - esclamò il Maso, pensando al Tanaglino. - Questa è grazia di Dio, cucinata dal generalissimo dei cuochi.
      - La nostra gloriosa repubblica ha di cotali valentuomini al suo servizio, - soggiunse gravemente Anselmo Campora, mettendosi a tavola. - Siedi, amicone. Domani sarai l'aiutante del mio cuoco; oggi sei il mio commensale. Lo hai meritato. Chi fa bene, abbia bene in questa vita e nell'altra. Tu m'hai portato il migliore della tua osteria, e Anselmo Campora non lo ha dimenticato. Bada a me, ragazzo; porta sempre del vino buono al nemico; verrà giorno che egli potrà ricambiartene. Assaggiami questo; è di Calice. Quest'anno lo abbiamo svinato noi altri.
      - Pur troppo! - disse il Maso tra sè.
      E mandò dalla tavola del nemico un pensiero alla patria.
     
     
     
      CAPITOLO XII.
     
      Nel quale si dimostra l'ingratitudine d'un ventre satollo.
     
      Il Maso ha mangiato, anzi no, dico male, ha scuffiato, macinato a due palmenti, il palmento della fame e quello della gioventù. Adesso sfa facendo la sua meriggiata all'aperto, al riparo del sole, colla schiena contro l'assito della baracca, mentre il paggio del suo anfitrione sta rigovernando i tondini e le scodelle imbrattate. Anch'egli si piglierà quella briga, ma cominciando dal giorno vegnente; per ora sta a vedere e fa conto di schiacciare un sonnellino, in onore dell'ospitalità ricevuta.
      Anche il Picchiasodo si era posto a giacere nella sua cuccia di strame, e già aveva legato l'asino a buona caviglia, allorquando vennero ad annunziargli un prigioniero che aveva chiesto di parlargli a quattr'occhi.


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Castel Gavone
Storia del secolo 15.
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1875 pagine 304

   





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