Ora, voi m'intendete, messere Anselmo; un grande amore può cangiarsi spesso nell'odio più acerbo.
- Capisco; - disse il Picchiasodo con gravità. - Del vino dolce si fa l'aceto forte.
- Ci siete, - incalzò il Sangonetto, - ed ora capirete eziandio che sa Giacomo Pico ricusa di bere la feccia del calice, ci ha le sue grandi ragioni.
- Questo Pico, - notò il capo dei bombardieri col piglio di chi vede molto lontano, - è un acquisto prezioso, per gli amici della libertà. Ma che diavol c'è egli? soggiunse, con accento mutato e balzando dalla panca. - Qualche topo mi rosica la parete; forse per giungere al cacio. Ma gliene caverò io il ruzzo, perdinci! -
Non c'erano topi, il lettore lo ha già indovinato; e il Picchiasodo, dal canto suo, parlava in metafora.
Il Maso, tutto orecchi da un'ora ad ascoltare quell'importantissimo dialogo, nello stupore onde lo avevano compreso certe inaspettate rivelazioni, non era stato saldo abbastanza. Si aggiunga che il paggio di Anselmo Campora non era più là, testimone del suo sonno simulato, avendo dovuto allontanarsi un tratto per certe faccende del suo ministero. Così, pensando di esser più libero e non ricordando che la parete era un semplice tramezzo di assi, il Maso aveva provato a rivoltarsi sulle reni, per accostar meglio l'orecchio; e il rumore lo aveva tradito.
Si pentì dell'atto, come in fin di vita non si sarebbe pentito de' suoi peccati; ma il pentimento non gli serviva un frullo, poichè Anselmo Campora s'era alzato da sedere ed accennava di voler uscire dalla baracca.
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Castel Gavone
Storia del secolo 15.
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano 1875
pagine 304 |
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