Sui primi giorni dell'ottobre, quando in me si era fatta pił forte la voglia, il cavalier Verga, incontrato in una casa di amici, mi aveva detto col suo solito garbo signorile, ma con altrettanta sicurezza di accento:
- Lei non andrą, e i suoi amici nemmeno. Del resto, che cosa andrebbero a fare, senza Garibaldi? -
Infatti, la prospettiva non era punto allegra. Il Generale, arrestato a Sinalunga, portato di lą in Alessandria, era stato ricondotto nella sua Caprera, dove il governo lo custodiva con due navi da guerra. Intanto, di lą dal confine Umbro, su quella terra che san Pietro non sognņ mai di possedere (egli a mala pena padrone di una paranzella sul lago di Galilea) erano incominciate le busse. Ma i nostri volontarii, i cosģ detti insorti dell'Agro romano, erano pochi, assai pochi, male in armi e peggio in arnese. Non c'era modo di andare in grossi drappelli ad aiutare quei pochi, che avevano passato il confine quando era meno diligente la guardia, e lo stato della insurrezione poteva compendiarsi in questa frase, che le bande stancavano il nemico, ma pił ancora sč stesse. La prodezza e la costanza erano ammirabili; ma pur troppo quelle due belle virtł non potevano tener luogo di scarpe, di coperte di lana, di cartucce e di pane; quattro cose altrettanto necessarie al soldato.
Roma o mortesi gridava frattanto, nelle dimostrazioni quotidiane, per tutte le cittą maggiori del regno. Bisognava andare in aiuto ai compagni, per tener vivo il fuoco. Garibaldi sarebbe un giorno o l'altro venuto in campo, a rinnovare i suoi prodigi; Stefano Canzio, la cui rara energia di propositi doveva meritargli l'appellativo di "noto" nei carteggi governativi, si adoperava intorno a un disegno di fuga, con affetto di congiunto, con devozione di soldato, e nessuno dubitava che l'impresa, quantunque difficile, avesse a sortire buon esito.
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