Niente di nuovo sotto il sole, dicevano gli antichi; ora il proverbio dovrebbe mutarsi così: niente di nuovo, per grazia del sole.
A proposito di novità, non ne aspettate da me, intorno a Firenze. Tanto ne è stato scritto da cinquecent'anni a questa parte! Il mio viaggio, del resto, non ha per sua meta l'Etruria; a Firenze non debbo fermarmi neanche due giorni intieri; del viaggio racconterò a mala pena il poco che vidi, e il niente che feci, o poco meno di niente. Nella mezza giornata del 13 di ottobre e nella mezza del 14 che passai sulle rive dell'Arno, alloggiando alla Locanda della Luna, desinando da Barile e bevendo qualche fiaschette di Pomino da Castelmuro, vidi molto Firenze politica, fastidiosa a quel modo, pochissimo Firenze artistica e storica. Perciò, lettori, non v'aspettate un quadro, e nemmeno un bozzetto.
Entrando, vidi un bel cielo, un cielo sereno, che mi parve quello di Genova. La città era allegra nell'aspetto: a me la rendevano solenne le grandi memorie che mi si affollarono alla mente, guardando le alture di San Miniato e le bastite di Michelangelo. Suonava il mezzodì, e non era certamente ora di fantasmi; ma io vedevo il Buonarroti, Francesco Carducci, Dante da Castiglione e tutte le colossali figure dell'Assedio, scomodarsi per la mia giovane persona e cortesemente servirmi da introduttori nella bella città.
Vedete potenza d'immaginazione! E non avevamo ad introduttore che un vecchio fiaccheraio, vera figura di Stenterello, il quale voleva insegnare il passo di corsa ad un cavallaccio sparuto, più vecchio di lui, a forza di frustate e di giuraddio.
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