Carrozze non ce n'erano, e il mandarne a cercar una a Salò poteva costarmi troppo salato. Alla cavalcatura di san Francesco ripugnavano i miei poveri piedi, memori ancora di venti giorni passati nel battaglione dei Carabinieri genovesi. Che fare? E qui, naturalmente, mi beccavo il cervello.
In questi frangenti venne a me il Belladonna, vero angelo portatore di una lieta novella. Costui era il mio buon padrone, poichè, sotto il pretesto di servirmi in qualità di attendente, inforcava il mio cavallo, quando io, per non istancarlo troppo, scendevo a piedi; metteva i miei guanti quando io li trovavo ancora puliti abbastanza, e si pigliava l'incarico di carezzar le guance alle donne di casa, dovunque io andassi ad alloggio; ma era poi un buon diavolaccio, che per farmi servizio si sarebbe buttato nel fuoco, e mi chiedeva tutte le mattine il permesso di offrirmi una tazza di caffè, che egli aveva l'ingegno di scovare non so dove, nè in che modo, quando eravamo accampati su per i greppi delle Giudicarie.
Ora, il mio buon padrone, saputo l'impegno in cui mi trovavo, era andato a frugare per le case e le fattorie dei dintorni. In un cortile aveva veduto un calessino sgangherato, da poterci star due persone, e attaccato al trespolo il cavallo dell'Apocalisse. Trespolo e cavallo erano del fornaio di Cazzane, e pronti per la partenza. Che si voleva di più? Al mio attendente pareva la man di Dio.
Era egli stato sollecito per me, o per sè, contando di esser chiamato all'ufficio di auriga? Non aveva egli lasciato a Storo qualche ricordo che gli premesse assai più delle mie tre fatiche ciceroniane al tribunal militare?
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