- Vidinus flavum Tiberium" esclama Ludovico, dalla testa della sua compagnia. - Velox amoenum saepe Lucretilem, rispondo io, stendendo la mano verso una gran montagna che azzurreggia a sinistra. Almeno, dovrebb'esser laggiù l'ameno Lucrètile, che igneam defendit æastatem capellis usque meis pluviosque ventos. Giustissimo; ribatte Ludovico; e vedi più giù la montagna di Tivoli, mite, solum Tiburis et moenia Catili. - E di qua niente? gridai io, accennando alla destra. Quel monte laggiù, che innalza la sua negra cima nel fondo della pianura, non sarebbe per caso il classico Soratte? - Tu dixisti, ripiglia quel capo ameno del mio Ludovico. Tu lo vedi nero, stavolta; se aspetti un par di mesi, lo vedrai magari bianco. Vides ut alta stet nive candidum Soracte?...
Dei immortali, quanto Orazio abbiamo snocciolato quella mattina sui greppi di Toffia! Io e Ludovico di Pietramellara ci eravamo proprio incontrati, con la nostra malattia citatoria. Dio li fa e poi li appaia, come dice il proverbio. Ma questa del citare Orazio ad ogni passo è veramente la malattia più terribile, quantunque non sia contagiosa. Il cite si souvent Homère et Horace, que c'est de quoi en dégoüter, ha lasciato scritto di un Tizio il famoso principe di Ligne. Il nostro maggiore, che la pensa come il principe di Ligne, ci annunzia ridendo che alla prima tappa ci manderà tutt'e due agli arresti. Perchè? siamo nel Lazio, perbacco, e la lingua del Lazio è il latino.
Questo dello slatinare in vicinanza di Roma è una mania naturale.
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