Ma in verità non ho veduto mai nessun valoroso, tra gli ufficiali superiori del grande Capitano, che come Stefano Canzio, alla fermezza, alla imperturbabilità, allo slancio di tanti e tanti altri, accoppiasse uno spirito così alacre, un ingegno così fecondo di utili novità, una grazia così serena, una perspicacia così viva nei momenti più critici.
Aggiungete che egli, possedendo la serenità e il buon umore, sapeva comunicare altrui l'una e l'altro. Ma quello che negli altri era appiccaticcio e girava facilmente allo spensierato, in lui era natura di mente lucida che non cessava mai di riflettere, che non perdeva di vista nessuna particolarità della battaglia e sapeva trar partito da tutte. Un sorriso e una celia, passando, erano gittati agli amici; ma l'occhio guardava intorno e giungeva lontano, vedeva dove fosse da rimediare, dove da portare un aiuto, dove da togliere un inutile spreco di forze, quando da rallentare, quando da tener fermo, quando da spingere. Se tutto non andò per il meglio, in quella guerra improvvisata, bisogna dire che le forze date dall'Italia d'allora non erano pari al bisogno, e che i miracoli non sono faccenda di tutti i giorni. Ma questo è un altro discorso: tornando a Stefano Canzio, conchiuderò che in lui il soldato moderno era compiuto, sul campo; vera stoffa di generale, e di quelli che non nascono tutti gli anni, nè su tutti i bollettini di avanzamento. Se avessi ancora i miei vent'anni, con quell'uomo per comandante, vorrei andare in capo al mondo, certo di far sempre una buona figura, E basta, oramai: a buon conto mi sono sfogato.
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