La comandava Enrico Razeto, già tenente, e quel giorno innalzato al grado di capitano, poichè il Pietramellara, per un ufficio di qualche importanza, come pratico assai del servizio ferroviario, era stato mandato ad occupare la stazione di Monterotondo. Con me e collo Stangolini, sotto il comando immediato del maggiore, marciarono la seconda e la terza, tenendosi, quanto più il terreno permettesse, collegato alla prima. Così giungemmo davanti ad un canneto. I canneti, lassù, per lo spesseggiar dei fossati, si alternavano colle vigne. Quello era il più vicino all'abitato; subito dopo il canneto si affondava il letto d'un rigagnolo; di là si rizzavano le mura del castello Piombino. A cinquanta passi dal canneto, ordinato un breve alto, il maggiore ci ripetè la raccomandazione di andar cauti. Volendo, con un po' d'attenzione e di calma, potevamo trafugarci tutti là dentro, senza far stormire una foglia. Ma sì, come persuadere a duecento uomini lo stesso grado di attenzione e di calma? Entrati nel canneto, sentono il terreno discendere; si aggrappano tutti alle canne; si rompono qua e là i fusti nodosi e si divelgono stridendo. Il rumore ha destata l'attenzione del nemico; non siamo ancor tutti in basso, e dalla spianata che è davanti al castello si scorge un lampo, e un tuono lo segue; col lampo e col tuono una grandine di ferro percuote, flagella, dirompe il canneto; grida e gemiti rispondono allo schianto improvviso.
Non c'è modo di raccogliere i feriti, per allora, nè di contare i morti; la bisogna più urgente è di correre al posto.
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